Raccolte di racconti sulla memoria degli espositori di Memorandia

pubblicati dal Corriere Aretino

a cura della

LIBERA UNIVERSITA' DELL'AUTOBIOGRAFIA DI ANGHIARI

Da un'intervista a Santi Del Sere nella sua bottega in via nova ad Anghiari

LA VERA STORIA DI SANTI DEL SERE DI ANGHIARI IN ARTE MASTRO SANTI
La mia storia di artigiano apprendista è cominciata mentre frequentavo il terzo anno dell'Istituto Statale d'Arte per il Restauro del Mobile sorto ad Anghiari alla fine degli anni '50. In questo palcoscenico alla fine degli anni settanta mi sono trovato io, studentello alle prime armi, in cerca di imparare qualcosa di più pratico rispetto alla scuola che certamente ti insegna, ma non ti può dare una formazione pratica di bottega. Chiuse le scuole, Gianfranco Giorni supplente di plastica visto le mie attitudini, mi invitò per l'estate a frequentare il suo laboratorio artistico. Francamente, conoscendo la specializzazione del mio insegnante, credevo che mi insegnasse a modellare la creta o a creare sculture. Invece mi dette dei ferri suoi di seconda mano per la lavorazione dell'intaglio su legno. Quanto ho sudato, non per la fatica ma per la difficoltà di questo mestiere, che comporta una capacità innata. Se non si ha la predisposizione difficilmente si riesce a migliorare nel tempo. La mia permanenza nella stanza del professore durò per un anno o poco più. Poi ci fu l'anno della leva militare, e quando tornai il lavoro dell'intaglio non abbondava molto. Mi venne l'idea di sentire mio zio Gnaso, tipico artigiano vecchio stampo "restauratore" di mobili, chiedendogli se mi avesse potuto tenere in bottega ad imparare il mestiere del restauratore di mobili. Devo dire che ho imparato più in sei mesi dal mio zio che in sei anni di scuola. La bottega di Gnaso era un fondo adibito a laboratorio: una sola presa di corrente per azionare gli attrezzi elettrici e due lampadine, che venivano accese una alla volta a seconda dell'esigenza. Questa era la tecnologia di laboratorio. La "bottega" un fondo adibito a laboratorio - era costituita in prevalenza da utensili di vario tipo azionati con propulsore a mano; il segone, la sega tradizionale a telaio, le varie pialle (da quella grossa allo sgrossino), un tavolo da falegname e i vari ferri da lavoro come lime, raspe e qualche scalpello di dimensioni diverse. C'erano anche delle mensole poste una accanto all'altra. In una erano sistemati tutti i prodotti per il restauro: gomma lacca, alcol, lana d'acciaio ecc. Ora che mi ricordo c'era anche una mola attaccata al muro, quindi le prese erano due, tutte attaccate in parallelo alla presa principale. Nei muri erano infissi dei chiodi dove venivano attaccate delle sagome di compensato tratte da modelli di mobili e sedie originali, che servivano da modello per ricostruzioni.
Nella parete, messi in maniera disordinata, erano attaccate delle foto incorniciate alla meglio che raffiguravano il mio povero babbo Laurino, il mio povero zio Berto in divisa militare durante la campagna di Russia, il mio povero nonno Santi in tenuta da militare della prima guerra mondiale e infine i miei fratelli Annibale e Valter vestiti di tutto punto durante la loro prima comunione. Mi sono sempre domandato perché non c'ero nell'album dei ricordi. A dirla tutta mancava anche il Cristo che è sempre presente nei posti di lavoro; l'assenza dell'iconografia religiosa era dovuta al fatto che mio zio era di pensiero politico comunista e quindi contrario all'istituzione ecclesiastica. Sicuramente l'immagine sacra non l'aveva apposta anche per rispetto, perché l'intercalare corrente da buon toscano era la bestemmia a fin di "bene", non con cattiveria; appunto un intercalare tra una parola e l'altra per colorire più il discorso questa era la funzione dell'improperio. In fondo alla stanza infine erano radunate tavole di legno di varia essenza, alcune parti di mobili smontati che servivano da pezzi di ricambio, una carretta di colore rosso minio che serviva per mezzo di trasporto. Questo era la bottega di mio zio Gnaso. Anche da bambino piccolo la mia mamma Edmonda, quando ci aveva da fare, mi portava a passare qualche ora ogni tanto in bottega dal mio zio e mi ricordo che la bottega era comunque sempre organizzata in questa maniera, anche se al tempo dei miei ricordi fanciulleschi il mestiere lo professava d'artigiano in piena regola. Zio Gnaso era solito dirmi che tutti i somari sono buoni a lavorare con le macchine. Infatti il lavoro manuale era l'elemento predominante, per forza di cose, di bottega, così imparai a segare con la sega a telaio, a piallare con il piallone e a usare i mezzi manuali di quotidiana amministrazione.
Mi ricordo la sua (e la mia) giornata tipo: lui si alzava la mattina alle sette, io alle otto per essere lì mezzora dopo, e appena arrivato prendevo sempre del fannullone. Incominciavo a fare qualcosa sempre attento a non farmi troppo vedere, perché lui controllava qualunque movimento stando bene attento a misurare i prodotti per il restauro senza sprechi eccessivi, altrimenti erano brontolii. Si andava avanti fino alle nove e mezza. A quell'ora mio zio andava a casa a fare colazione per una mezz'oretta, ed io rimanevo solo in bottega potendo lavorare almeno più tranquillamente, senza troppi sguardi di controllo. A mezzo dì o poco più pausa pranzo; si ricominciava alle due e mezza. Nel pomeriggio era prevista un'altra piccola sosta di una mezz'oretta: si andava a prendere la spuma, che era un tipo di bitter analcolico di colore rosso o bianco frizzante. Sicuramente, quando era più giovane, mio zio al posto della spuma beveva il vino, ma viste le sue condizioni di fegato "tormentato" gli toccò ripiegare in questo liquido che rassomigliava per colore al vecchio nettare degli dei ma ahimè di sapore insignificante. Questo era lo scandire del tempo di tutti i santissimi giorni nella bottega, come si fosse in un convento. Quante cose ho imparato! Dalla lucidatura all'invecchiamento del mobile e a tante altre cose, anche il riuscire a non sprecare materiali e la modestia per potersi mettere sempre in discussione con il prossimo, che solamente la bottega di un vero artigiano ti poteva insegnare. Per onestà devo dire che l'esperienza di bottega da Gnaso mi è servita e mi serve ancora. Durò poco anche qui. Ricominciai quindi a frequentare la mia bottega legnaia cominciando a comprarmi con quel po' che riuscivo a guadagnare con dei piccoli restauri e intagli che racimolavo qua e là, la mola a smeriglio un trapano e una piccola sega a nastro tutti rigorosamente elettrici. Mi ricordo che "commissioni" stavano nella dita della mano: una poltrona del settecento che mi portò Gnaso per rifare gli intagli (lui non era buono a farli), qualche sedia rotta di un mio amico. Il colpo di fortuna, ovviamente, arriva quando meno te lo aspetti. Infatti, mentre ero nulla facente, facevo domanda per le supplenze a scuola per l'insegnamento di intaglio e intarsio: provare non costa niente. Mi andò bene e di sobbalzo mi trovai a fare l'insegnante di cattedra, anche se supplente, alla mia scuola. Da allievo discolo ad insegnante il salto era troppo grande; infatti anche questa avventura proseguì solamente per l'annetto a disposizione. In quell'anno, super, detti tutto me stesso ma non bastò a rifarmi della mia reputazione scolastica precedente. Tuttavia mi servì molto perché scoprii una nuova materia, anche se non ne ero proprio digiuno: la tarsia, tecnica odiata durante la frequenza scolastica per il motivo che le doti più importanti richieste per intarsiare sono la pazienza e la grande precisione, qualità che possedevo ma non le sfruttavo nelle lezioni di tarsia, dato che il mio interesse che era rivolto maggiormente alla disciplina dell'intaglio. La mia dipartita forzata da insegnate mi dette degli stimoli di rivincita, e quale modo per riscattarmi? Lavorare e far vedere quello che ero in grado di fare. L'insegnamento era perso definitivamente e dopo qualche anno aprii bottega con il nome di Mastro Santi. Sembra un po' presuntuoso darsi del maestro da solo, ma l'idea di questo nome mi venne per due motivi: un po' per riscattare un nome che mi è sempre pesato da quand'ero adolescente, specialmente quando ti presentavi ad una ragazza. Chiamarsi Santi o Santino non è che cambiasse molto, forse era più facile chiamarsi Paolo, facevo sicuramente più colpo. Inoltre pensai di dare alla ditta questo bel nome tipico toscano ereditato dal mio nonno, perché sa di antico e richiama i vecchi mastri di una volta. A almeno servirà a qualcosa, pensai. La mia attività continua nella bottega dove restauro, intaglio, ricostruisco mobili, qualche volta dipingo, lavoro la creta, disegno al computer; insomma fin che posso mi diverto lavorando.

segue